Onorevoli Colleghi! - Sin dal Corpus iuris, il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare a implorare giustizia dall'imperatore, perché era stata loro negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice.
      Il moderno Stato di diritto si fonda sulle garanzie di imparzialità del giudice, ma sin dallo Statuto albertino - che quelle garanzie riconosceva e traduceva nei princìpi di inamovibilità (articolo 69), di predeterminazione del giudice naturale (articolo 71) e di legalità del giudizio (articolo 72) - la loro vigenza non ha mai ostato a un sistema sanzionatorio nei confronti del diniego di giustizia. Il modo di riparare ai vizi della legge o all'imperfetta organizzazione degli uffici giudiziari non è mai il silenzio del magistrato, il quale equivarrebbe a una sospensione della giustizia. Per questo motivo la legge stessa prevedeva il caso del silenzio, allo scopo di impedire che i giudici si astenessero dal giudicare.
      Il rifiuto di ministero e la denegata giustizia vengono contemplati per la prima volta dall'articolo 235 del primo codice penale unitario del Regno d'Italia, secondo cui «qualunque giudice e qualunque autorità amministrativa, che sotto qualsiasi pretesto, anche di silenzio, oscurità, contraddizione od insufficienza della legge, avrà ricusato d'esercitare un atto del suo ministero, e di fare giustizia alle persone che glielo avranno richiesto, ed avrà perseverato nel suo rifiuto dopo l'avvertimento e l'ordine dell'autorità superiore, sarà punito con la sospensione dall'esercizio dei pubblici uffizi, e con la multa estensibile a lire trecento». A questa previsione

 

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facevano da «pendant» rigorose normative che evidentemente da essa ricevevano impulso ed efficacia: già oltre un secolo fa l'articolo 231 del codice di procedura penale imponeva che la persona fosse interrogata entro le 24 ore dalla data dell'arresto o della spontanea presentazione.
      Diversa è la questione dell'avvertimento o dell'ordine dell'autorità superiore, visto che i princìpi costituzionali sopravvenuti hanno eliminato qualsiasi forma di subordinazione gerarchica nella carriera giudicante; essi però non sono incompatibili con una forma di controllo dell'efficacia organizzativa degli uffici giudiziari, la quale, senza entrare nel merito del procedimento giurisdizionale sul quale il magistrato procedente resta pienamente dominus, responsabilizzi il capo dell'ufficio nei confronti di patenti violazioni del dovere di fare giustizia. Ecco perché questa proposta di legge (articolo 6) propone la responsabilità solidale del capo dell'ufficio, che può liberarsene soltanto dimostrando di essersi attivato per rimuovere le forme di inefficienza riscontrate in concreto.
      Più in generale, è ben vero che la possibilità di errore è connaturata al processo, ma l'esistenza, all'interno del processo, di appositi mezzi di impugnazione finalizzati all'eliminazione dell'errore non costituisce ragione di incompatibilità fra processo e responsabilità del giudice; appaiono infondate anche le obiezioni di chi assume che la previsione, in sé, di tale responsabilità contrasterebbe con gli articoli 101, 104 e 108 della Costituzione, compromettendo l'imparzialità della magistratura, con l'attribuire alle parti uno strumento di pressione idoneo a influenzarne le decisioni. La possibilità di un «controprocesso», con finalità sanzionatorie a carico del magistrato, farebbe sorgere in lui, al momento della decisione di ogni controversia, un elemento di interesse personale alla prudenza, al conformismo, alle scelte meno rischiose in relazione agli interessi economici coinvolti nella causa, in contrasto con il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge.
      Argomentare che da un sistema di responsabilità del giudice purchessia deriverebbe la lesione della sua stessa indipendenza, che ha per presupposto uno status di piena libertà da ogni influenza e intimidazione esterne, significa ignorare gli ormai dirimenti motivi di diritto della sentenza della Corte costituzionale n. 18 del 9-18 gennaio 1989. Il rischio della forza psicologica di dissuasione dalla reiterazione di decisioni identiche o analoghe alla precedente, implicito in un sistema di responsabilità, fu dalla Corte esplicitamente escluso; già nella sentenza n. 2 dell'11 marzo 1968 essa aveva dichiarato che «L'autonomia e l'indipendenza della magistratura e del giudice ovviamente non pongono l'una al di là dello Stato, quasi legibus soluta, né l'altro fuori dall'organizzazione statale».
      Tutta l'evoluzione dell'ordinamento della magistratura tende ormai a negare ambiti di immunità, confutando la compromissione dell'indipendenza della magistratura e di ogni evoluzione giurisprudenziale a seguito dell'assunto per cui i giudici sarebbero spinti all'adesione forzata a princìpi giurisprudenziali consolidati, per porsi al riparo da responsabilità. Neppure sembra applicabile la risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite 40/32 del 29 novembre 1985, secondo cui i giudici sono immuni da azioni civili per danni derivanti da atti realizzati nell'esercizio delle loro funzioni, e ciò perché la Corte costituzionale ne ravvisò il carattere non cogente; infine, la stessa Corte di giustizia delle Comunità europee ha ritenuto infondata la tesi secondo cui una legge sulla responsabilità civile dei giudici indebolirebbe la funzione giurisdizionale nell'ambito dell'ordinamento comunitario.
      Ma tali obiezioni, respinte dalla Corte costituzionale con riferimento alla responsabilità da decisione positivamente assunta dal magistrato, sono vieppiù infondate quando trattasi di un non-atto, di un silenzio contra ius, cioè di un inadempimento dei doveri di pronunciare giustizia. I citati precedenti del periodo albertino, mai ritenuti incompatibili con l'ordinamento,
 

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lo dimostrano. Fu mera scelta di discrezionalità politico-legislativa quella di non riprodurre nelle successive codificazioni analoghe fattispecie di reato: ma il disvalore della denegata giustizia non fu mai messo in dubbio, proprio perché sarebbe un fuor d'opera assumere che l'indipendenza del giudice possa estrinsecarsi anche nel «non liquet».
      Assunto il disvalore della condotta (o meglio dell'assenza di condotta), è interessante notare come l'evoluzione legislativa abbia inteso «circoscriverne» la portata incriminatrice. Si cominciò, nel codice di procedura penale del 1913, istituendo rimedi processuali contro il diniego di giustizia: l'articolo 135 del codice Finocchiaro Aprile apprestava un'interessantissima forma di impugnazione contro il silenzio. Soppressa nel codice Rocco, qui si propone di riportarla in vita quanto meno per gli strumenti cautelari; essa letteralmente recitava: «Ogni illegale omissione o rifiuto di decidere sopra una domanda diretta all'esercizio di una facoltà conceduta per l'esercizio dell'attività processuale delle parti di un procedimento giurisdizionale, è causa di nullità, purché immediatamente o nel primo atto successivo alla notizia avutane sia fatta espressa riserva di dedurre l'eccezione relativa».
      Quasi a bilanciamento di una tale causa di nullità, a ragion veduta la Commissione Reale, incaricata della redazione del codice del 1913, respinse la proposta (avanzata alla Camera dei deputati da Turati, che espresse il timore si sancisse «una specie di immunità per i magistrati») di una formula di responsabilità dei funzionari cui fosse rimproverabile la nullità, non limitata ai soli cancellieri e agli ufficiali giudiziari. In un ordinamento che conosceva ancora la previsione per cui «i magistrati, i cancellieri, gli ufficiali giudiziari, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono obbligati ad osservare le norme stabilite dai codici di procedura civile e penale, anche quando l'inosservanza non comporta nullità od altra sanzione particolare» (oggi la si riterrebbe una pleonastica clausola di stile), «pensatamente non si è voluto cointeressare il giudice nella nullità e ragionevole è sembrato limitare la sanzione al cancelliere ed all'ufficiale giudiziario, anche perché l'articolo parla di rifiuto o negligenza nell'adempimento di un dovere di ufficio» (Enciclopedia del diritto penale italiano, a cura di E. Pessina, parte II, volume I, Milano, 1920, pag. 793).
      Il passo successivo avvennne quando, nel codice penale del 1930, l'articolo 328, secondo comma, subordinò l'applicazione al giudice o al pubblico ministero del reato di omissione o rifiuto di atti d'ufficio alla concorrenza delle «condizioni richieste dalla legge per esercitare contro di essi l'azione civile». Agganciare l'incriminazione per diniego di giustizia alla responsabilità civile significava, al di là dell'applicabilità o meno della condizione di procedibilità dell'autorizzazione del Ministro, rinviare a un ambito nel quale da sempre (articolo 783 del codice di procedura civile del 1865, poi articolo 55 del vigente codice di procedura civile, ora abrogato) la denegata giustizia si accompagnava alle sole ipotesi di «dolo, frode o concussione». Ecco perché quella disciplina è stata sostanzialmente «sterilizzata».
      La presente proposta di legge intende ridare efficacia alla sanzione penale della denegata giustizia e, per farlo, piuttosto che operare su un'improbabile figura delittuosa di cui provare il dolo (qual è l'articolo 328 del codice penale anche nelle sue successive formulazioni, compresa quella vigente, di cui comunque si mantiene intatta l'operatività), l'unica possibilità è quella di agire con una previsione contravvenzionale che consenta di incriminare anche condotte caratterizzate da colpa.
      La disposizione centrale della proposta di legge (articolo 7) si ricollega perciò a innovative proposte in ordine alla concreta attuabilità del giusto processo nelle varie materie, a proposito del contenzioso civile, amministrativo e penale, che non possono non passare attraverso la predeterminazione di una ragionevole durata del processo nelle sue varie fasi. Le novelle legislative sin qui intervenute a tutela del cittadino, garantendogli l'accesso agli atti
 

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del procedimento amministrativo e la trasparenza dello stesso (legge 7 agosto 1990, n. 241), impongono analogicamente la tutela di pari diritti in materia di contenzioso giurisdizionale, non essendo possibile parlare di giusto processo senza l'individuazione di un responsabile del giusto processo medesimo.
      Necessario complemento dell'introduzione di tale meccanismo, a garanzia del dovere di concludere, mediante l'adozione di un provvedimento espresso, il procedimento giurisdizionale ovvero il subprocedimento giurisdizionale, è la decorrenza di un termine che, in quanto non sia già direttamente disposto per legge, ai sensi dell'articolo 5 è compito del Ministro della giustizia determinare. Nel farlo, dovrà uniformarsi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul termine ragionevole di cui all'articolo 6, primo paragrafo, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848.
      Non può dirsi che gli uffici ministeriali non siano attrezzati a farlo, visto che il regolamento di organizzazione del Ministero, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 marzo 2001, n. 55, ha istituito, nell'ambito del Dipartimento per gli affari di giustizia, una Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani [articolo 4, comma 2, lettera c)] competente, tra l'altro, su: contenzioso relativo ai diritti umani in materia civile e penale; ricorsi individuali proposti contro lo Stato avanti la Corte europea dei diritti dell'uomo; procedure relative all'osservanza di obblighi internazionali aventi ad oggetto la protezione dei diritti dell'uomo; adeguamento del diritto interno alle previsioni degli strumenti internazionali in materia di diritti umani; contenzioso in materia di responsabilità civile dei magistrati.
      Le determinazioni, per essere assunte ed emanate con decreto del Presidente della Repubblica, necessiteranno comunque del previo parere del Consiglio superiore della magistratura per i procedimenti o i subprocedimenti civili e penali, del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa per i procedimenti o i subprocedimenti giurisdizionali amministrativi, del Consiglio di presidenza della Corte dei conti per i procedimenti o i subprocedimenti giurisdizionali contabili e del Consiglio della magistratura militare per i procedimenti o i subprocedimenti giurisdizionali militari. Ma, visto che non si può più chiedere al cittadino di pagare per i ritardi degli uffici, la legge fissa, per la conclusione del procedimento dinanzi al medesimo magistrato, un termine di un anno per la rispettiva parte dei procedimenti, laddove non siano assunte determinazioni contenenti un termine maggiore.
      La citata responsabilità del titolare dell'ufficio giudiziario procedente (articolo 6), invece, è solo civile, attivabile a seguito dell'azione penale contro il magistrato procedente contravventore: nella liberatoria si è appositamente provveduto a non richiedere al capo dell'ufficio condotte che, decampando dalle sue competenze organizzative, potessero essere vissute come un'ingerenza nell'indipendenza del giudice nella conduzione e nella decisione del procedimento giurisdizionale.
      Il risarcimento da ingiusto processo deve essere esperibile nei confronti del responsabile in maniera immediata e diretta: alla contravvenzione conseguirà quindi un titolo di responsabilità del magistrato verso il cittadino danneggiato. Occorre perciò sostituire la norma attualmente vigente (legge 24 marzo 2001, n. 89), che consente la sola riparazione mediante un indennizzo sul quale la giurisprudenza è ulteriormente ostruzionistica, introducendo invece la possibilità di conseguire un risarcimento patrimoniale e morale per chi abbia ingiustamente patito la durata eccessiva di un processo.
      Il risarcimento da ingiusto processo deve valere per tutto il contenzioso giurisdizionale, in modo da eliminare le copiose sentenze di condanna comminate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per il ritardo o il diniego di giustizia; risulta auspicabile per il cittadino danneggiato ricevere adeguata tutela mediante esperimento di un'azione immediata e diretta nei confronti del responsabile, mentre
 

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la legge n. 89 del 2001 (di cui comunque si mantiene l'operatività, esclusivamente per il pregresso) non ha affrontato tale tematica e conseguentemente si è limitata a disciplinare un meccanismo elusivo del diritto riconosciuto dai giudici di Strasburgo.
      La responsabilità civile del contravventore, nella presente proposta di legge, segue le regole generali dell'equo indennizzo, ma include la colpa non grave; ciò a differenza della responsabilità civile di cui al capo I, per fatti diversi dal diniego di giustizia, nella quale si è scelto di mantenere la sanzionabilità civile solo per dolo o colpa grave. Per l'incuria nel decidere, il magistrato dovrà essere chiamato a rispondere personalmente (salvo il citato caso di solidarietà del capo dell'ufficio), ma la possibilità di escutere lo Stato - entro i margini di operatività dell'articolo 28 della Costituzione - consentirà di apprestare una garanzia pubblica all'obbligo di equa riparazione. Peraltro, per gli ambiti coperti da obbligazioni internazionali dello Stato, continueranno a vigere nei confronti di questo i procedimenti per la riparazione per l'ingiusta detenzione, di cui all'articolo 314 del codice di procedura penale e all'articolo 102 delle norme di attuazione del medesimo codice, e quello di riparazione dell'errore giudiziario, di cui all'articolo 645 del codice di procedura penale.
      Lo strumento risarcitorio è costruito come alternativo alla possibilità che, in determinati casi, operi uno strumento ripristinatorio che, sulla falsariga di quanto già previsto in materia di termini per il primo interrogatorio e per il riesame, caduchi il diniego di giustizia: esso (articolo 9) opera sulla falsariga del citato articolo 135 del codice Finocchiaro Aprile, consentendo l'impugnazione del silenzio del giudice sulla richiesta di pronunciarsi su un'istanza cautelare.
      Il «tripode» punitivo della denegata giustizia - dopo il reato contravvenzionale e l'illecito civile - si completa con la previsione (articolo 8) di un'apposita causa di responsabilità disciplinare.
      L'altro «binario» della presente proposta di legge riscrive la normativa sulla responsabilità civile dei giudici, ispirandosi da un lato alla giurisprudenza costituzionale e dall'altro alle proposte sempre più decisamente presentate a livello politico-parlamentare per risolvere la questione.
      Nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge 13 aprile 1988, n. 117, di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio. Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati.
      L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1988 è dimostrata dal fatto che, ad oltre diciotto anni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1988 è ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
      Ecco perché la presente proposta di legge intende (fatte salve le norme sugli organi collegiali, di cui all'articolo 4) ispirare il sistema della responsabilità
 

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civile dei magistrati alla «grande regola» della responsabilità aquiliana, nel sistema riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 della Costituzione e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). Ciò con due sole eccezioni: la limitazione al dolo e alla colpa grave (articolo 3) e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale «l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (...) non può dar luogo a responsabilità del giudice».
      Nel contempo, come ebbe modo di concludere la relazione al disegno di legge che nella medesima direzione fu presentato dal senatore Borea nella XIV legislatura (atto Senato n. 1427), approvando la presente proposta di legge «si avrà la possibilità di chiamare in causa direttamente il magistrato che abbia errato dolosamente o per colpa grave, restituendo ai tanti magistrati seri e preparati la dignità di essere responsabili dei propri atti».
 

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